L’Etnopsichiatria
“La moltiplicazione di situazioni in cui gruppi culturali differenti vengono a contatto fa sì che non sia più possibile applicare il protocollo psicologico-psichiatrico che abbiamo ereditato dagli studi otto-novecenteschi. Si rende necessario trovare un metodo pratico e l’Etnopsichiatria è la prima scienza coerente con ciò che sta accadendo nel mondo”.
Le parole di Piero Coppo, neuropsichiatra e psicoterapeuta, si dirigono verso la definizione degli approcci di ricerca e di sostegno rivolti a pazienti stranieri.
Le migrazioni inducono ad “incontrare altri” e, dunque, a ripensare i modelli di salute, di eziologia e di trattamento della “malattia”, a cercare di sospendere ogni giudizio etnocentrico, per meglio apprezzare, riconoscere ed educare se stessi e l’altro ad una autopreferenzialità culturale che non ammetta pregiudizio alcuno.
Tobie Nathan, uno dei massimi esponenti dell’approccio etnopsichiatrico ha rilevato che “l’incontro con l’altro è sempre traumatico”, e che il vero problema consiste nella “traducibilità dell’altro”. Non sarebbe dunque superfluo interrogarsi su chi sia (e come sia) veramente l’altro-da-noi, in un mondo che cambia nel segno di una società sempre più multietnica.
Sembra proprio di dover re-inventare una nozione nuova dell’alterità, anche semplicemente per con-vivere con l’altro.
Un “altro-da-noi” che costringe a mutare i dispositivi lessicali per imparare a tradurlo, appunto.
Del resto, uscire dalle consuetudini, “dalla conoscenza quotidiana, sperimentare il nuovo o anche lo straordinario e riportarlo poi nell’ambito della realtà conoscitiva ordinaria, è una sfida faticosa, ma stimolante.”
Il “nostro” psicotico e lo straniero, da questo punto di vista, presentano per gli psicologi e psichiatri qualche analogia: entrambi ci forzano ad accettare e valorizzare i modi diversi dal nostro di intendere la realtà, i rapporti fra le persone e a ripensare radicalmente i nostri modelli interpretativi e terapeutici(8).
Molte persone immigrate, che si recano nei servizi sanitari del paese di accoglienza, portano in evidenza soltanto la propria richiesta di assistenza prettamente medica e corporea, nascondendo all’interno del silenzio la propria storia fatta di vicissitudini tragiche, di abbandoni e separazioni.
Il modo di avvicinarsi alla possibilità di essere accolti attraverso un ascolto “diverso”, più empatico, più personale e rispettoso assieme, presenta spesso un notevole grado di scetticismo e di iniziale diffidenza. Nello stesso tempo, chi offre questo ascolto, è un professionista formatosi attraverso modelli che contengono riferimenti scientifici, culturali e sociali tipici della cultura all’interno della quale si è formato. In questa situazione iniziale si pone l’incontro tra il paziente immigrato e l’operatore psicologico e/o educativo.
Ora, si ha l’impressione che, rispetto al mondo dell’immigrazione, la nostra cultura, i nostri sofisticati strumenti di ascolto, i nostri codici di attribuzione di senso, siano sotto la minaccia di uno scacco. A muoversi verso la direzione della comprensione del fenomeno dell’migrazione nell’ottica della salute mentale si pone, oramai da anni, la disciplina dell’Etnopsichiatria.
Cercare di definire l’Etnopsichiatria può essere fuorviante da un punto di vista concettuale,
come ci suggerisce Beneduce; è difficile, infatti, delineare la definizione di una disciplina che è per sua natura pluriforme(9) , “di frontiera”(10) , “nomade”(11). Sarebbe, dunque, più corretto parlare di etnopsichiatrie, diverse quanto diverse sono le culture a cui esse si appoggiano.
Questa disciplina sorge dalla convergenza d’interessi e d’informazioni culturali provenienti dalle cosiddette aree di confine tra discipline come la Medicina, la Psicologia, la Pedagogia interculturale, l’Antropologia, la Sociologia.
Il termine Etnopsichiatria venne introdotto per la prima volta da Georges Devereux nel 1961, quando ancora si utilizzava il termine di Psichiatria transculturale per indicare l’ambito di studio delle patologie di pazienti di culture extraeuropee, anche se si ritiene che tale termine fosse stato introdotto già anni prima da J. Carothers(12).
L’Etnopsichiatria è definita come “…una tecnica terapeutica che riserva uguale importanza alla dimensione culturale del disturbo e della sua presa in carico da un lato, all’analisi dei funzionamenti interni della mente, dall’altro”(13).
Disciplina comparativa che ingloba dentro di sé un sapere medico occidentale e altri saperi provenienti da molteplici culture; nel tempo essa si è assunta il difficile compito di tradurre tutto questo in efficace pratica terapeutica: “la sfida, dunque, è quella dell’elaborazione di un saper fare nuovo, multidisciplinare e multiculturale, che nasca dal vedere dall’alto, e in parallelo, i vari sistemi culturali e quindi anche i vari modelli antropologici e saper-fare terapeutici, tra i quali, ma sullo stesso livello gerarchico, anche quello prodotto in Occidente.
Un saper-fare capace di rispettare e contenere differenze e specificità, in grado di mediare conflitti tra gli inevitabili, ma anche auspicabili, perché portatori di diversità, localismi”(14) , non senza riconoscere distinzioni e peculiarità fra un sapere e l’altro.
Se ciò è vero, tutte le consuete modalità (psicologiche, pedagogiche, psicoanalitiche) di comprendere l’altro e di rispondere alla sua sofferenza, possono essere radicalmente rielaborate.
Questa faticosa (e non indolore) opera di de-narcisizzazione della cultura occidentale costituisce la condizione per evitare il rischio di cadere nell’impotenza comunicativa ed operativa.
D’altra parte, l’incalzare delle nuove situazioni sociali, obbliga a riadattare il nostro apparato cognitivo rispetto all’area salute/malattia/cura per poter leggere quelle che ci si presentano come realtà altre (comunque inusuali, per noi) della condizione umana.
Il “passaggio di confine” come necessità formativa etnopedagogica.
La relazione di cura con gli immigrati costituisce precisamente una relazione transculturale di cura, dove il termine “transculturale” sta ad indicare il riconoscimento che la relazione si attua fra persone che rinviano esse stesse a mondi culturali diversi.
La ricostruzione narrativa di un’appartenenza culturale è assolutamente necessaria, perché permette di riconoscere che ogni cultura “fabbrica” gli individui in modo specifico, uguali e diversi allo stesso tempo rispetto a quelli creati dagli altri sistemi culturali ed etnici.
Nella suddetta relazione terapeutica, l’intero bagaglio nosografico e terapeutico delle scienze psicologiche occidentali viene messo in discussione e sperimenta spesso un’insormontabile impasse.
Tale situazione stimola un’opportuna riflessione sull’evoluzione storica del sapere psicologico e suscita interrogativi sulla validità univoca del modello occidentale che tende ad appiattire la complessità dei rapporti tra aspetti culturali e manifestazioni psicopatologiche, per andare alla ricerca di invarianti naturali, piuttosto che di variabili socioculturali(15).
La stessa organizzazione dei nostri servizi sanitari risulta impostata su di una logica “cartesiana” che radica e rafforza, nella sua operatività, quella divisione tra mente e corpo tipica dell’impostazione occidentale, ma spesso totalmente estranea all’esperienza di chi proviene da culture extra-occidentali, nelle quali prevale una visione maggiormente olistica e diversamente complessa della malattia e della salute(16) .
È un confine, quella linea che chiede di essere superata nell’affrontare un fenomeno del genere negli ambiti di cura e sostegno psicologico, un passaggio di confine nel tentativo di colmare lo scarto esistente tra la portata esistenziale dell’esperienza migratoria e i modelli di riferimento delle discipline psicologiche.
La capacità di sporgersi su questo confine descrive, dunque, per la Psicologia un’attitudine utile ad avvicinarsi alla condizione di precarietà e d’indissolubile incertezza simile a chi vive l’esperienza migratoria, un avvicinamento funzionale alla sintonia empatica, nel tentativo di costruire un universo referenziale “meticcio”, abitabile per l’operatore quanto per il paziente.
La Psicologia che si occupa della diagnosi, della comprensione e delle strategie terapeutiche necessarie per il superamento di un disturbo psichico è il luogo del cortocircuito, del dentro e del fuori, del soggetto e dell’oggetto.
Il suo peccato originale, per dire così, è quello di perseguire l’oggettivazione dell’inoggettivabile, di voler ridurre ad oggetto ciò che non solo o non semplicemente non è un oggetto, ma che è il luogo stesso a partire da cui l’oggetto si costituisce: cioè, visto dal lato della Psicologia, il soggetto stesso, l’interiorità, la psiche.
Questo problema, però, oggi accompagna anche la Pedagogia speciale nell’incontro con giovani soggetti, portatori di disabilità, provenienti da nuclei familiari immigrati da paesi non occidentali.
Da questo punto di vista, molto si deve anche alla riflessione pedagogica condotta da studiosi interculturalisti, i quali da un’attenzione meramente assistenzialistica, caritatevole e/o umanitaria degli anni settanta/ottanta, sono transitati, nel tempo ad una più pertinente teorizzazione del ruolo delle culture nei processi educativi e, in particolare, alla riconsiderazione e ridefinizione del ruolo della disciplina pedagogica interculturalista rispetto alle pratiche di accoglienza e di educazione dell’altro all’interno del contesto socioculturale e legale, del paese al quale l’immigrato chiede aiuto ed ospitalità.
Per questo motivo, l’etnopedagogia si accompagna all’etnopsichiatria e alla stessa psicologia, dal momento che tra gli aspetti importanti della sofferenza mentale vi sono i modi soggettivi, ecologicamente intesi, di porsi nei confronti della vita, delle persone care, del mondo, del lavoro, della relazione.
L’angoscia, la tristezza, la disperazione, la dissociazione, il delirio, i vissuti emozionali profondi, hanno in qualche modo a che fare con quei modi di essere.
Partendo dal presupposto che l’ascolto costituisce il punto di partenza di un qualsiasi incontro terapeutico, di sostegno o educativo, ci si rende conto che se si rimane nel confine dei modelli metapsicologici occidentali, il problema rimane del tutto insoluto.
Non si tratta, ovviamente, di idealizzare la funzione dei pazienti “altri” elevandoli o deformandoli al rango di informatori culturali. Si tratta, invece, di costruire quella base di interazione in cui il linguaggio del paziente non sia sconosciuto all’orecchio del clinico, perché altrimenti questo esporrebbe il soggetto sofferente ad una serie di incomprensioni e fraintendimenti che preludono a fenomeni di rigetto, di marginalizzazione esistenziale e di trascuratezza assistenziale.
Non si tratta nemmeno di rinunciare a quegli approcci scientifici e terapeutici, ma di essere disponibili al dialogo, alla problematizzazione, alla ricerca in comune”(17).
Queste considerazioni ci pongono di fronte alla necessità di rendere concreta una procedura auto-formativa del sapere di ciascuno, in grado di decifrare, talora decriptare, quei princìpi che strutturano il modello gnoseologico ed ermeneutico di riferimento, per arrivare ad accettare una riconsiderazione di quegli stessi princìpi e della loro funzione clinica, nel momento in cui, in un approccio di cura e/o di relazione educativa, come quello con soggetti provenienti da un altro contesto di vita e di cultura, si pone la necessità di aprirsi al nuovo del rapporto con l’altro(18).
Si concretizza, per la disciplina psicologica, lo stesso problema che si pone a livello educativo e sociale: multiculturalismo, pluralismo, quindi accoglienza, accettazione della diversità e ricerca di un’integrazione che non sia semplice assimilazione ed omogeneizzazione, ma “apertura” e dialogo con la diversità, “costruzione” negoziata di qualcosa di nuovo, tendenza al metalogo.
In particolare, questo ribaltamento di prospettiva costringe a coniugare il punto di vista culturale con quello della formazione, in specie nell’ambito sanitario, della cura e della salute mentale dei migranti.
Da sempre la disciplina pedagogica si è occupata, soprattutto, di studiare l’attività formativa che si svolge nei luoghi a tal fine deputati, ossia quasi esclusivamente nella scuola, come se la formazione possa esistere solo là dove essa viene ufficialmente autorizzata.
Da questo punto di vista, in questi ultimi anni, è avvenuto un duplice, importante, riposizionamento della ricerca educativa: da un lato, si è preso atto che la formazione è uscita dai luoghi abituali, si è allargata ad ambiti nuovi e, dall’altro, che essa si riferisce anche ad età diverse della vita; una formazione diffusa, quindi, che tende e rendere educativi anche contesti che teoricamente non lo sarebbero(19).
Disciplina intrisa di un forte valore dato alla tutela degli elementi culturali, l’Etno-pedagogia(20) si prodiga nella possibilità di costruire un discorso pedagogico e quindi educativo, rivolto alla necessità dell’evenienza interculturale, all’accettazione e alla diffusione di un modello educativo che abbia in sé i principi dell’incontro tra culture nel loro pieno e reciproco riconoscimento di validità ma anche di confronto.
La costruzione di questo dialogo formativo si pone come prioritario nella formazione continua di operatori che si cimentano nella comprensione dell’uomo e, in particolare, di quei soggetti che giungono da contesti culturali spesso sconosciuti.
In quanto Etnografia della formazione, questa disciplina guarda con interesse alla prossimità dell’altro come generatrice della prossimalità, a quelle “zone d’ombra” della quotidianità multiculturale che rappresentano altrettante opportunità educative, potenzialità formative che possono svilupparsi nel momento in cui le agevoliamo e le aiutiamo ad uscire dalla notte buia dell’indistinto, del confuso.
Il termine Etno-pedagogia, a cui è fatto riferimento in questa breve riflessione, intende volgersi verso l’opportunità, da parte della cultura scientifica psicologica, psichiatrica e pedagogica, d’intraprendere un procedimento riflessivo che converga verso una rivisitazione delle metodologie e delle pratiche di educazione, di supporto e cura della persona, attraverso la presa in considerazione dei contesti etnico/culturali di appartenenza sia dell’operatore che dell’utente.
Questo processo di “formazione culturale” ha una sua duplice valenza; esso si concretizza sia in modo autonomo, da parte dell’operatore sia all’interno dell’incontro educativo e terapeutico vero e proprio.
Entrambi i soggetti in questione si presentano come “coautori” di un costante scambio culturale; dialogico, empatico ed espressivo.
Il primo riconoscerà nella ricerca di senso dell’altro la necessità di una rivisitazione dei modelli diagnostici conoscitivi della relazione educativa e d’aiuto, che esulino da un inquadramento esclusivamente nosografico o da un sostegno rivolto in maniera etnocentrata.
Da parte sua, il soggetto che usufruisce dell’aiuto sarà, brunerianamente, narratore di sé, ma al tempo stesso sarà narrato dalla cultura di cui fa parte, cosa che veicolerà il processo di cura e/o sostegno
La questione che si pone non è semplicemente come far coesistere culture, ma come farle incontrare; dunque, non si tratta di una semplice operazione di traduzione, la sfida che si pone è quella di inventare un nuovo modello operativo, capace di trasformarsi in pratica concreta(21).
“Parlare – scriveva Frantz Fanon – significa assumere una cultura, sopportare il peso di una civiltà, se si superano le parole e si lasciano parlare direttamente gli oggetti del proprio sé, si abbandonano le ombre e le suggestioni del proprio percorso personale, per dare spazio alla vera voce della persona con cui si dialoga”(22).
Oggi, nell’incontro fra culture è posta una sfida alla e della pedagogia; al suo fondo si pone l’acquisizione di una visione culturale basata sul dialogo fra differenze, sull’uso stesso del dialogo dell’ascolto e della costruzione di una comunicazione più piena e genuina possibile